Di Martin John Trout - https://martinjohntrout.wixsite.com/endurance-training
traduzione e adattamento di Diego Trabucchi
Avere un coach o non averlo? Ogni atleta, a un certo punto della sua carriera sportiva, si pone questa domanda amletica, non sapendo quale direzione prendere. Alcuni decidono di farsi guidare e aiutare, altri preferiscono organizzarsi da soli il proprio allenamento e magari scaricarne uno da internet, altri ancora semplicemente di uscire e correre.
Ma perché un atleta dovrebbe scegliere di avere un coach? Quali vantaggi potrebbe trarne? E, una volta deciso di prenderlo, quali sono i criteri in base ai quali trovare quello ideale per lui o lei?
È risaputo che un atleta che si gestisce da solo, tende spesso a fare troppo, troppo in fretta, troppo presto. Gli articoli tecnici sui giornali o sui siti internet sono pieni di moniti e avvertenze riguardo ad atleti “bruciati”, vittime del “troppo e troppo presto”, tuttavia conosciamo tutti qualcuno che è caduto in questa trappola, o anche ci siamo caduti noi stessi, sull’onda dell’entusiasmo e di una scorpacciata di endorfine. Un programma di allenamento salutare deve bilanciare esercizio e recupero, intensità, frequenza e volume, forza e flessibilità, resistenza e massima potenza, coordinazione e resilienza mentale; il tutto incastrato in una vita normale in cui l’atleta è, a turno, lavoratore, marito/moglie, genitore e amico. Oltre a questi fattori, va poi considerato che ciascuno ha le proprie particolarità, inclusa una risposta diversa ai carichi dell’allenamento.
Ecco allora che si spiega cos’è e a cosa serve il coach, che dovrebbe dunque essere un osservatore esterno, che giudica imparzialmente le prestazioni, guida l’atleta fra micro e macrocicli di lavoro, supporta la motivazione quando necessario, vigila per prevenire infortuni e sovrallenamento, cerca un bilanciamento fra lo sport e la vita di tutti i giorni. Parliamo allora di un mentore il cui unico obiettivo è quello di indicare il cammino ottimale, non solo per il migliore risultato atletico, ma per la salute e il benessere individuale.
Ci sono quattro aree principali in cui un coach deve essere preparato a fornire il suo supporto ed esperienza.
Piano di allenamento personalizzato
Il piano deve essere olistico, periodizzato e individualizzato; vediamo come.
In primo luogo, il coach deve apprendere il più possibile riguardo al potenziale atleta. La sua storia sportiva, da quanto corre, che tipo e quantità di allenamento svolge (lunghe distanze, dislivello, intensità, ritmo); poi le prestazioni: quali gare ha fatto e con quali risultati. Una componente vitale è la situazione medica e lo storico degli infortuni, per capire a quali l’atleta è andato incontro e se questi sono causati dalla corsa. In aggiunta, è rilevante sapere quale altra attività sportiva è svolta al momento (o è stata svolta nel passato), come ad esempio ciclismo, nuoto o altro.
Nell’ambito della sfera sociale, è fondamentale essere informati sulla situazione familiare (relazioni, figli, etc.) e sul lavoro svolto (tipologia: ufficio, manuale, al volante – intensità: numero di ore, viaggi, responsabilità). Tutti questi fattori possono infatti generare stress che, sommato allo stress da allenamento, possono ad esempio dare disturbi al sonno o all’equilibrio ormonale, portando a riduzione delle prestazioni o addirittura a situazioni di crisi profonda.
Il coach deve anche capire gli obiettivi dell’atleta. Vuole semplicemente arrivare in fondo a una gara oppure ottenere un piazzamento nella classifica di categoria? Vuole estendere la distanza delle sue gare da 50 a 100km? Vuole vincere, oppure all’opposto, portare a termine la sua prima stagione di gare sui sentieri senza sofferenze particolari o infortuni?
Solo quando tutti questi fattori sono stati raccolti e compresi, il coach può iniziare a preparare un piano di allenamento, stabilendo i periodi e le fasi di costruzione delle varie abilità, senza stabilire per intero il programma di allenamento dettagliato di tutta la stagione (3, 6 o 9 mesi ad esempio), ma tracciandone solo l’ossatura. Un coach coscienzioso non dovrebbe stabilire programmi di dettaglio per una durata superiore a un mese, anzi molti preferiscono lavorare su tabelle da una o due settimane e in ogni caso ci deve essere un sistema di feedback, di confronto e discussione che permetta modifiche al programma. La ragione di questo è che la velocità dei miglioramenti di norma non è lineare: cambia nel tempo e, ovviamente, da individuo a individuo.
In linea generale il piano deve prevedere degli adeguati periodi di riposo e recupero, nonché un ragionevole livello di varietà, al fine di prevenire il livellamento delle prestazioni e la noia.
Conoscenza
Un buon coach deve avere conoscenze eccellenti di fisiologia umana e teoria dell’allenamento, meglio se ottenute con studi universitari specifici (anche se possono esserci percorsi diversi), così come nozioni di psicologia e una conoscenza medica di base. Nel caso degli sport di resistenza (“endurance”), sarebbe anche preferibile che il coach avesse partecipato ad eventi simili, in modo da capire e prevedere le necessità specifiche di quello sport. La conoscenza e le nuove scoperte nella scienza dello sport sono in rapida evoluzione negli ultimi decenni, pertanto gli allenatori dovrebbero essere disposti ad aggiornarsi, studiando e leggendo le ricerche.
Dato che un piano di allenamento ha successo se c’è costante comunicazione e dialogo tra coach e atleta, è probabile che l’atleta sottoponga spesso delle domande che richiedano spiegazioni competenti, scientifiche, chiare. Queste domande possono essere varie: dai chiarimenti sulle ragioni di particolari tipi di allenamento o sui risultati attesi, ai consigli su come usare gli integratori alimentari, come amminoacidi e creatina. Potrebbero esserci richieste di assistenza su nutrizione e idratazione in gara o nella vita di tutti i giorni, ma anche coinvolgimenti negli aspetti psicologici delle gare e del recupero. Il coach dovrebbe essere sempre in grado di dare risposte chiare, imparziali e documentate; se non avesse la risposta, dovrebbe saper fare le necessarie ricerche per poter suggerire un’ipotesi oppure chiedere il parere di un altro esperto del settore.
Pianificazione
Per l’atleta, uno dei compiti più difficili è la programmazione della stagione agonistica. È relativamente facile scegliere i principali obiettivi stagionali (es.: LUT a giugno e UTMB ad agosto), ma quali altre gare conviene inserire nella stagione? Quanto dovranno essere lunghe? Quale progressione ideale dovranno seguire e quali dovranno essere i periodi di riposo fra una e l’altra? Ci troviamo chiaramente in un ambito in cui una stretta collaborazione fra atleta e coach può dare ottimi risultati, evitando errori potenzialmente pericolosi e assicurando una transizione senza interruzioni tra le fasi di allenamento, scarico (“tapering”), competizione e recupero, in maniera ciclica.
Il coach deve anche sapere suggerire e abbozzare una strategia di gara adatta agli obiettivi, agli specifici punti di forza e debolezza, nonché alle caratteristiche del tracciato di gara. I consigli su alimentazione e idratazione possono poi avere un ruolo fondamentale in una strategia di gara di successo, così come la scelta di abbigliamento e materiali.
Coltivare e spronare
Il coach capace dovrebbe sempre avere a cuore il bene del proprio atleta e questo a volte trascende la soddisfazione o il raggiungimento degli obiettivi di quest’ultimo. In altre parole, gli allenatori hanno la responsabilità fiduciaria di comportarsi nell’interesse dell’atleta nel lungo termine. Questo potrebbe comportare il sacrificare le prestazioni e le gratifiche nel breve periodo, sia per l’atleta che per il coach, per preservare però la salute o i margini di miglioramento futuri. Come detto nell’introduzione, la posizione del coach è quella di osservatore esterno imparziale, con il compito di prevenire gli errori mentre fornisce motivazione.
Allo stesso tempo, è necessario incoraggiare sia la crescita che la progressione; questo ha due componenti: conferma e sfida. Le conferme devono essere rivolte alle qualità positive e al raggiungimento di risultati, evidenziando i punti di forza e celebrando i miglioramenti in corso d’opera. L’altro aspetto, la sfida, è forse più difficile; gli atleti prendono un coach per crescere e migliorarsi, ma questo richiede spesso di mettere alla prova le proprie convinzioni e, magari, rompere abitudini controproducenti.
Un coach abile coltiva il suo atleta sia dandogli conferme che mettendolo alla prova, incoraggiandolo e motivandolo ad arrischiarsi in un terreno sconosciuto, fuori dalla “comfort zone”. Questo potrebbe significare affrontare un livello superiore di allenamento o di intensità negli allenamenti, o più spesso il fare qualcosa in modo diverso: ridurre i carichi, sviluppare abilità nuove o esplorare nuove caratteristiche dell’atleta per scoprire potenziale non ancora utilizzato. Questo processo potrebbe essere faticoso per entrambi i soggetti in gioco, ma è necessario mantenere la disciplina e rimandare le gratifiche in nome di soddisfazioni future. Coltivare significa proprio: gestire nel tempo, per spingere oltre i precedenti limiti e raggiungerne di nuovi più elevati.
Abbiamo quindi visto che un coach dovrebbe essere capace di creare un piano di allenamento personalizzato, dispensare conoscenze adeguate e precise, assistere nella pianificazione di una stagione agonistica ed essere dedicato a salvaguardare l’atleta anche per il futuro. Ma che cosa deve mettere in gioco l’atleta in questa relazione a due? Come si deve comportare rispetto al coach?
Prima di tutto, anche per importanza, si deve prendere un coach solo avendo un’idea chiara e precisa di quali obiettivi si vogliono raggiungere, a quali gare si vuole partecipere e con quali risultati. Comprensibilmente, queste aspirazioni devono essere ragionevoli e raggiungibili e molto spesso il coach può aiutare a definirle con maggiore precisione, qualche volta moderando, qualche volta stimolando e alzando l’asticella. L’ossatura del programma di allenamento sarà costruita infatti su queste basi.
In seconda battuta, è fondamentale che ci sia il feedback dell’atleta al coach; questo non significa che l’atleta debba telefonare al coach dopo ogni sessione di allenamento, ma che sia pronto a dare un riassunto della settimana, riportando in modo chiaro le prestazioni, le sensazioni e qualunque tipo di infortunio o malattia. I grafici della frequenza cardiaca possono essere utili a spiegare meglio dei lavori complicati come ripetute o scatti in salita.
Terzo, l’atleta dovrebbe rispettare gli allenamenti prescritti. Questo non gli nega la possibilità di esprimere la propria opinione sulle sessioni di allenamento, il loro ordine, la lunghezza o intensità, ma queste devono essere rispettate alla lettera, una volta che siano state concordate. Saltuariamente, a causa di imprevisti, l’atleta può non riuscire a fare la sessione richiesta, ma in questi casi è fondamentale che avvisi il coach, di modo che si possano apportare le necessarie (eventuali) modifiche al programma.