Vorrei cogliere uno spunto di riflessione a mio parere interessante, lanciato sul mio profilo Facebook da Julien Rancon. Dopo aver pubblicato (su corsainmontagna.it) il mio diario di allenamento, unito ad alcune considerazioni sull’avvicinamento e sull’esperienza dei Golden Trail Championships, il capitano della nazionale francese di corsa in montagna Ju Ju mi ha scritto questo breve messaggio:
“Buona riflessione Francesco e un bel duetto con Tito.
Qui in Francia siamo sempre sorpresi dal poco lavoro specifico in montagna nelle vostre preparazioni ma impressionati dal vostro aspetto sul piano.”
© Francesca Grana
Poco lavoro specifico in montagna. Già, ma poco rispetto a cosa? Qual è il riferimento, il metro di paragone, quando prepariamo una gara di trail o di corsa in montagna?
Mi rendo conto di come in realtà, per quanto riguarda allenamenti e diari in preparazione ai grandi appuntamenti del trail di atleti di livello mondiale, si sappia ben poco. O meglio, abbiamo a disposizione una letteratura limitata, se paragonata a quella disponibile per specialità come la maratona o il mezzofondo. Ed esempio, gli allenamenti di Jim Walmsley sono pubblici e visibili sul suo profilo Strava. Ma cosa c’è dietro di essi? Come è strutturata la sua stagione, che tipo di filosofia c’è dietro le sue scelte, quali sviluppi ha in mente per i prossimi anni?
© Francesca Grana
A parte le provocazioni lanciate sporadicamente sui social che interessano forse più alla gang degli atleti disagiati, come si allena Kilian Jornet?
Come si prepara un km verticale? E una classica come la Sierre-Zinal? Ha senso una seduta di ripetute brevi alla velocità aerobica massima per un atleta che prepara una 100 miglia?
Il trail è una specialità relativamente nuova e meno scientifica rispetto alla maratona. Uno dei motivi sta nel fatto che è poco adatta ad essere parametrizzata attraverso grandezze fisiche e indicatori che non riescono a tener conto dell’estrema variabilità di percorsi, condizioni e parametri fisiologici.
© Jordi Saragossa
Tanti atleti sono self-coached, fanno da sé, e probabilmente non pongono particolare enfasi sull’aspetto tecnico della loro preparazione. In fondo bastano quei 3-4 lavori specifici, i lunghi in montagna, le salite, i medi, e combinare questi ingredienti diventa un gioco da ragazzi: non sono strettamente indispensabili l’abilità e la sensibilità di un allenatore nel guidare il proprio atleta durante una preparazione.
Lo sviluppo del trail running e il suo sbilanciamento verso la quantità, piuttosto che la qualità e il significato tecnico di allenamenti e gare (penso soprattutto a UTMB e oltre: Tor des Géants, Self Trascendence Race, race to the moon and back…?) probabilmente ha fatto sì che anche da questo punto di vista esista una sorta di anarchia che, a mio avviso, permea diversi aspetti legati a questo sport: dall’allergia verso le federazioni e i regolamenti, al leggendario “spirito trail”, alla mancanza di montepremi dichiarati nelle principali competizioni anche a livello mondiale, alla complicata questione legata all’antidoping.
@ Martina Valmassoi
Senza sconfinare troppo nel filosofico, io stesso fatico a quantificare il termine “poco” legato al lavoro specifico in montagna durante la mia preparazione per i GTC. Certo, il mio coach direbbe che “un mese di allenamento non vuol dire molto e va collegato a due principali considerazioni a monte: il percorso sportivo dell’atleta nei mesi/anni precedenti e il “calare” il piano di lavoro (sportivo) nella quotidianità dell’atleta-persona (che può essere lavoratore, studente, professionista…)”. E qui si innesta il ragionamento che tentavo di fare poche righe sopra. Se non ho a disposizione dei modelli di riferimento, oppure dei parametri con i quali confrontarmi, come faccio a sapere se è poco o è tanto?
© Francesca Grana
Potrei rispondere a sensazione, o meglio basandomi su quelle che sono le mie caratteristiche, la mia storia atletica, i miei obiettivi agonistici. A posteriori mi sarei concentrato maggiormente sugli allenamenti specifici in montagna. Sarebbe stato molto difficile trovare, qui sulle Alpi, condizioni simili a quelle che ho sperimentato alle Azzorre, ma avrei senz’altro potuto sviluppare delle abilità neuro-muscolari e motorie utili ad affrontare i tratti più tecnici e non corribili. Magari senza migliorare nello specifico sulla velocità, ma superandoli spendendo meno dal punto di vista mentale e energetico. A questo proposito probabilmente sarebbe servito meno correre 16x500 in 1’26 e di più attraversare una palude. Ma sarebbe anche stato difficile immaginarlo prima di volare alle Azzorre.
Riflettendo a più ampio respiro, mi rispondo che questa è la filosofia con cui io e il mio allenatore prepariamo le gare in montagna. Le mie migliori performance, come il mondiale di corsa in montagna in Patagonia del 2019 (lo stesso percorso dove, guarda caso, si sarebbe dovuta correre la finale delle Golden Trail Series 2020), una gara dove il mio risultato è stato quantificato in 936 punti ITRA, si sono quasi sempre basate su questo tipo di preparazione. Colmare il gap con i migliori al mondo, nel mio caso, voleva dire crescere sulla capacità di corsa pura per poi traslare queste qualità in montagna.
© Philippe Reiterer
Credo che il fatto di mettersi in discussione sia fondamentale per crescere e migliorare. Non rimango aggrappato a queste convinzioni in maniera ottusa: l’“avere sempre fatto così” non è in ogni caso un motivo che mi tiene legato a queste abitudini. Però so anche che la coerenza intrinseca di un percorso fissato, alla lunga, premia molto di più rispetto ad altri magari più “fighi” ma meno sistematizzati. Mi fido del mio allenatore e di ciò che abbiamo costruito negli anni: so che con arte e sensibilità saprà orchestrare al meglio la composizione di pendenze, superfici e intensità per arrivare pronto agli appuntamenti che ci interessano. Non conosco tutto quello che passa nella sua mente e non mi chiedo il motivo di ogni sua scelta: in fondo sono un atleta, mi interessa correre più di ogni altra cosa.
Lo ribadisco, i GTC non erano l’obiettivo principale di stagione e quest’anno volevo correre bene (per le mie possibilità) anche su pista e su strada. I personali sui 10 km e sulla mezza maratona confermano la bontà del lavoro svolto. Quindi, Ju Ju, grazie per il tuo commento che mi ha dato l’occasione per scrivere questa breve riflessione. A volte mettere le parole a più di 30 cm di distanza dal cervello aiuta a vederle e soprattutto a capirle meglio.
On to the next.
Francesco Puppi
© Philippe Reiterer