“Ehi paco come stai, cosa posso fare per te?”
Tim Tollefson, atleta elite del team Hoka International.
“Prendo solo una cosa nella drop…”
“Rimani seduto, te la prendo io” fa e corre a prenderla, mi si siede di fronte e prende la borraccia, andandola a riempire di ghiaccio e acqua.
Ti è mai capitato che Kilian fosse al tuo servizio in gara? che si ricordasse come ti chiami anche se ti conosce da poco piu di un'ora e che è sinceramente contento di vederti arrivare in fondo?
No. in Europa non trovi gli elite a servizio nei ristori. Sulla situazione italiana stendiamo un velo pietoso, dove per noi essere atleti elite significa avere un po’ di loghini sulle maglie, non pagare le iscirzioni alle gare e avere un po’ di persone che ti dicono bravo o grande quando vinci le corse parrocchiali.
Se non si fosse capito, siamo in USA, più precisamente in un deserto dell’Arizona: Fountain Hills il posto, Javelina Jundred 100 mile la gara.
Fa un caldo della madonna e sto male da troppe ore.
“Sei riuscito a mangiare qualcosa? Ti vedo un po meglio”
“No, non ancora.”
Attimo di silenzio, gli occhi si abbassano.
“In realta non è vero che ti vedo bene. Però continua a muoverti. Ti do un minuto ancora per stare seduto e poi riparti, ok?”
“Dici che arriverò in tempo per il cutoff di fine gara delle 30 ore?”
“Non lo so. non ho idea. Cammina intanto, poi vedrai. Il minuto è scaduto” mi porge la mano e mi alza in piedi.
“Se sul serio non te la senti…” dice
Ma io sono già partito.
Non ti metti a discutere di religione col papa. Presuppongo che non puoi metterti a disquisire con Tim Tollefson riguardo l’ultrarunning.
Mentre la bandana ripiena di ghiaccio legata attorno al collo sbatte sulle spalle e il ghiaccio dentro il cappello che ho in testa inizia a bruciarmi il cervello, penso:
“Passerà. Deve passare. Prima o poi passerà.”
Breve excursus che mi ha portato in questa condizione:
- Al miglio 20 ha iniziato a far caldo, caldo così.
- Al miglio 25 mi sono reso conto di avere la bandana per il ghiaccio nell’altra drop, quella già superata.
- Al miglio 27 ho pensato che avrei trovato il mio metodo: ghiaccio nel cappellino, ghiaccio nei calzini.
- Al miglio 28 stavo morendo di caldo.
- Al miglio 30 ho iniziato a mettermi ghiaccio dentro la maglietta, sulle spalle e, ripeto, dentro la maglietta.
- Al miglio 31 ho iniziato a vomitare.
I miei piedi nel frattempo erano messi così.
Non è niente, passerà.
- Al miglio 37 era l’ad station di cui sopra.
- Al miglio 41 vomito giallo, perché non avevo più cibo in corpo. Anche l’acqua stava giù a fatica. Avevo vomito già 3 volte.
- Al miglio 45 vomito per la nona volta consecutiva.
- Al miglio 50 piscio un orribile colore rosso scuro sangue.
Miglio 57, Rattlesnake ranch aid station.
“I’m feel like my body isn’t into it.”
“Credi che potresti fare dei danni permanenti al tuo corpo o è solo una cosa momentanea?”
Riki dice che alla fine le ossa si ricostruiscono.
“No. I don’t know. I don’t think so.”
“If not then, so, go.”
“See ya in 7 miles”
E a strascinarmi nel buio. Pianissimo. Un morto vivente nella notte di Hallowween. Le mani che stringono i pantaloncini e la voglia di mollare. Sedermi per terra, chiudere gli occhi, addormentarmi e dimenticare tutto.
Rimango al buio. Se voglio arrivare alla mia frontale devo correre dietro a qualcuno.
Ho la frontale nella drop all’arrivo. Non avevo pensato che sarei stato così indietro a questo punto, e il buio è arrivato presto. Conosco due tizi, entrambi vecchiotti. Uno alla prima 100, mai corso più di 100 km e l’altro un corridore esperto: mi lasciano entrambi al buio. Corro al buio inciampando ogni pochi passi.
Passo sotto lo striscione di partenza/arrivo. Mi fisso la frontale sulla testa.
Voglio farlo sul serio?
Prendo tre fette di pizza e ragiono ad alta voce.
“Cazzo sono italiano, la pizza non posso vomitarla, sarebbe contro natura.”
“Sono italiano” dico a dei tizi che mi guardano male. Ridono, applaudono e fanno casino.
Vomito il pezzo che ho mangiato dietro il primo cactus dopo 5 minuti. Il secondo lo tiro nel buio agli avvoltoi e ai coyote. Che vadano affanculo. Mangio il terzo masticando a bocca aperta.
Dai stronzo, non scherzare, la pizza ti è sempre piaciuta
Il terzo sta miracolosamente giù.
Accendo la frontale. A un tratto la strada diventa una chiazza bianca. I cactus formano strane ombre, sembrano persone con le braccia aperte. La luna c’è, è sempre più grande. Il deserto cambia faccia, la sabbia evapora il calore, tutto diventa immobile, silenzioso. Inquietudine.
Bevo della coca, della zuppa calda. Sta giù, dai, deve.
Vomito di nuovo. Mi piego sulle ginocchia. Respiro a forza. Mi siedo e rimango al seduto.
Dai ti do il tempo di 5 respiri grossi poi riparti.
Riparto camminando in discesa. Ho male ai piedi.
“Puo farti male fino a un certo punto, poi non può andare oltre.”
Dico citando Ann Trason.
Passerà.
Incrocio facce. Tutti salutano e dicono well done, o nice job! O you look strong! E non rispondo. Vorrei, sul serio. Ma sono troppo concentrato a guardarmi le punte dei piedi. Mi ripeto che sono le crisi ad essere più importanti nella carriera di un ultrarunner e le giornate storte, che se fosse tutto liscio non avrei mai scelto questo sport. Nella mia vita ho sempre scelto cose per cui non ero portato. Non lo so perché, ma è così che va.
Un passo alla volta. Questo è ciò che ho scelto.“Puo farti male fino a un certo punto, poi non può andare oltre.”Trascino il peso del mio corpo su per la salita fino al corridoio verde di erba che non c’è nel resto del deserto. Passo a fianco alle due pietre di granito rosso. Inizio ad avere dei punti di riferimento. Almeno fino alla prossima drop bag. Poi da lì non ho idea di quanto potrebbe mancare.
Altra gente che incrocio. Accenno sorrisi, abbasso la testa, provo a sorridere. Che cazzo.
Tutto può andare male, ma ho il mio cazzo di i-pod.
Questo mi basta per arrivare di nuovo all’arrivo. Andare alla mia drop bag senza fermarmi, tornare sotto l’arrivo, passare di nuovo davanti alle tende, bere 2 bicchieri d’acqua, svitare il filo le cuffiette senza smettere di correre. Premere play e passare sotto la partenza di nuovo. Mancano 40 km.
Premere play.
Sparire nella notte.
Aid Station Jackass miglio 71
Gente che balla, gente che beve, gente con robe fluorescenti addosso. Tiro giù della zuppa calda con dei noodles. Arriva il mio amico Rob e mi dice di smettere di pensare alla gara, al tempo che volevo fare e pensare solo ad arrivare in fondo. Gli dico che non so nemmeno se mi interessa più e in effetti è così che la vedo. Ma in realtà entrambi sappiamo che per qualche ragione irrazionale arrivare al traguardo potrebbe chiudere il cerchio di tante cose.
Lo sai. Ti serve a chiudere il cerchio di tante cose
Di allenamenti saltati o fatti al buio dopo essere tornato da qualche trasferta lavorativa. Alcuni mesi allenarmi era impossibile. Pur alzandomi alle 3 del mattino o andando anche quando avrei solo voluto fare una doccia e andare a dormire, mi sono allenato, ma non mi sono allenato bene. A settembre non ho avuto un singolo giorno libero per allenarmi come avrei dovuto. Ho provato a incastrare tutto, a dormire giusto le ore strettamente necessarie per essere sveglio. A comparire sempre il più sorridente e rilassato possibile, anche quando avrei voluto essere in qualsiasi altro posto e avrei voluto sentire sensazioni diverse alle gambe. Essere in burnout completo da troppo tempo, essere venuto qui senza aver guardato l’altimetria, aver gestito le drop bag in modo a dir poco approssimativo e avendo sbagliato il biglietto del viaggio.
Chiedermi perché per stare bene ho bisogno di trovarmi dall’altra parte del mondo, a macinare un giorno e una notte di fila correndo. Il cerchio di aver già perso il volo aereo per il Nevada quando dovevo correre a Tahoe con Tommi e mi sono trovato a casa con la broncopolmonite e 39,7 fisso di febbre per 2 settimane a 10 giorni dalla gara. Al fatto che mi hanno cancellato la notte in ostello quando ero in aeroporto a New York. Al fatto che il mio livello di tolleranza allo stress è minimo, e cazzo, le prime cose che sacrifico sono quelle che mi fanno stare bene, come correre. Al fatto che tornerò e dopo il volo in aereo e guidato 3 ore, dormirò 3 ore dovrò ripartire senza passare da casa. Alle cose che ho scelto di sacrificare quando coach Grazielli mi ha detto:
“Scegli. Se vuoi preparare una 100 adesso ti devi mettere sotto per bene, da subito”.
Gli ho detto io che lo volevo. E di gambe non starei neppure male. Fanculo.
Esco nella notte senza alcuna risposta e mi concentro sul respirare. Un tizio mi parla, ma ho le cuffie. Ha la faccia scavata, non sembra se la stia passando troppo bene. Chissà che faccia ho io.
Tolgo le cuffie
“Ehi, bella notte è?”.
“Mh, mh. mugugno”.
“Non dovresti usare le cuffiette, ci sono i Cojote che ululano”.
Rimetto le cuffiette e riprovo a correre.
Dopo poco sono di nuovo un morto vivente. Il tizio passa e mi supera, gli faccio un cenno. Rimango da solo.
Ho i crampi alla pancia. Che cazzo. Peggio di così non potrebbe andare.
Tolgo le cuffie e guardo in terra. Mi metto a fianco alla strada e mi siedo sulla polvere.
Non me ne sta andando una dritta cazzo.
Peggio di così non può andare.
Stacco le cuffie e spengo la frontale.
Rimango al buio.
La luna è un pallone giallo che sta in mezzo al cielo. Si vedono le ombre dei catus e il lieve vento sulla pelle bruciata mi provoca pelle d’oca. In lontananza qualche lucina che si muove. A un certo punto sento anche io sul serio i coyote ululare.
Nel silenzio del deserto ci sono dei coyote che ululano, sono in Arizona e questo è il mio grande giorno. Non ho mai sofferto così tanto in vita mia, o almeno nella mia vita da sportivo.
Scoppio a ridere.
Che cazzo! “Sei un coglione!” mi dico. Peggio di così non può andare! e scoppio di nuovo a ridere. “Stanotte verrò mangiato vivo da un coyote!” dico ad alta voce e scoppio a ridere. Che figata cazzo, sarò quello che è stato mangiato vivo da un coyote! E rido ancora.
Dimentico tutto, la gara, la mia vita, le cose che non vanno, le cose che mi fanno dormire male, le persone lontane, i buchi nella vita, le cose che ho perso. Tutto, dimentico tutto. Sono in un deserto da solo che rido e ho sbagliato tutto, ho mandato a puttane la gara più importante dell’anno e alla fine, non me ne frega nulla. Perché devo ridurmi schiavo delle aspettative? Aspettative di chi? Perché ho qualche aspettativa verso me stesso?
Vaffanculo tutti.
Accendo la frontale, mi rialzo e riprendo a correre.
Fino in fondo.
Arrivo dopo 24 ore e 55 minuti da dove ero partito.
Al miglio 100 c’è il solito striscione. C’è Ann Trason sul serio, e pensare che per un sacco ho ripetuto la sua frase nella mia testa senza sapere che fosse qui.
C’è che devo sbrigarmi a smontare il materassino e preparare il borsone prima che il sole mi arda vivo. C’è da bere il possibile e da cambiarmi nella tenda i pantaloncini che ho tenuto per 160 km e senza aver dormito e coi crampi diventa difficilissimo. C’è una fibbia. C’è tutta quella rabbia che avevo dentro che sento svanire.
C’è che sono arrivato in autostop e in autostop devo tornare e sarà meglio che lo trovi subito. C’è che anche se non ci sono le docce sarebbero comunque troppo lontane, sono arrivato di giorno, quindi è troppo tardi per dormire e devo trovare un posto all’ombra intanto che cerco un passaggio in autostop.
C’è il solito striscione, ci sei tu che sei felice e che pensi che tutto sommato, non stai poi tanto male.
Dopo 40 ore che non dormo, arrivato in ostello e raggiunto con dolori lancinanti il primo 7/11 aperto, mi godo il mio the freddo su un amaca.
Chiudo gli occhi, provo a ripensare alla gara, non ricordo quasi nulla.
Chiudo gli occhi.