CORRERE NELLA LEGGENDA - LA WSER

Testo di Davide Ferrara

 

La Western States Endurance Run (o WSER) è la gara di corsa da 100 miglia (160,8 km) più antica al mondo. La California del Nord, terra di frontiera, di corsa all’oro, di banditi e di geni creativi, ospita dal 1974 la competizione. Da Olympic Valley alla pista di atletica della Placer High School di Auburn, attraverso alte montagne, foreste, canyon infuocati e boschi millenari.

 

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Ma la storia e i dati della corsa possono essere facilmente reperiti sui siti di settore; quindi questa è la storia della MIA Western States Endurance Run. E allora mettetevi comodi perché ci vorrà un bel po’ a raccontarla, sperando di non perdere troppi lettori strada facendo.

Quest’anno è toccato a me. Era da qualche anno che tentavo la fortuna, e finalmente il mio nome è stato estratto nella lotteria che decide chi parteciperà alla corsa. Era già una parte del sogno che si avverava. Ma i sogni restano tali se non vengono nutriti e condivisi. E così ho trovato nel mio fraterno amico Roberto un pacer d’eccezione che potesse accompagnarmi, come da regolamento, negli ultimi 60 kilometri di corsa. O meglio, accompagnare quel relitto umano in cui normalmente mi trasformo dopo i 100 km di gara.

La partenza è alle 5 del mattino da Olympic Valley, nelle montagne della Sierra Nevada californiana. Il cielo d’alta montagna, all’aurora, è limpido come cristallo, i runners si salutano e si augurano “good luck”, qualcuno gestisce la tensione saltellando o percorrendo mentalmente la serie di ristori della gara, dai nomi che vanno dal buffo al terribile: Dusty Corners, Miller’s Defeat, Last Chance, Devil’s Thumb, Rucky Chucky, eccetera.

Tanto per cambiare, somatizzo il nervosismo e vado in bagno 3 volte… per fortuna ci sono le  mie amiche Laura e Megan, così chiacchiero un po’ con loro e mi distraggo; poi incontro il buon Francesco de Riz e mi preparo a partire.

Si parte con un certo freddino, e si sale fino ai 2650 metri. Qui è facile farsi prendere dall’entusiasmo e andare troppo forte, ma per fortuna riesco a stare tranquillo e mi tengo abbastanza in coda al gruppone.

 

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“Gravity is a b*tch”, dichiara ad alta voce una concorrente. E in effetti la prima salita si rivela molto ripida, anche se per nulla tecnica. Ma è l’unica vera difficoltà del percorso nella prima parte. Dico “del percorso” perché, al sorgere del sole, e complici le quote sempre più basse, comincia a fare molto – MOLTO – caldo. E quando arrivo a Duncan Canyon (39 km), dove incontro per la prima volta mia moglie e Roberto che mi assistono, mi sono già fatto spugnare più volte con acqua ghiacciata ai ristori precedenti.

 

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A Robinson Flat, dopo circa 50 km, un ristoro da urlo, con speaker, tifo da Tour de France e un’atmosfera che per un attimo mi fa scordare il caldo e il fatto che devo avere una temperatura corporea interna che potrebbe cuocere del pane.

L’importante è nutrirsi, bere tanto e tenersi il più possibile al fresco, come suggerirebbe il tg Studio Aperto in questi frangenti, approfittando di qualsiasi corso d’acqua incontrato in corsa. Al resto ci pensa l’enorme quantità di ghiaccio sempre disponibile ai ristori. Questa, infatti, si rivelerà una delle edizioni più calde della quasi cinquantennale storia della corsa. Decido di appesantirmi facendomi mettere un sacco di ghiaccio nello zainetto, che ora pesa molto di più, ma almeno mi evita il colpo di calore. In più ho attorno al collo una bandana, anch’essa piena di ghiaccio. Non riesco a mettere ghiaccio sotto il cappellino, però. Il freddo del ghiaccio sulla mia testa pelatina è piuttosto doloroso e quindi rinuncio.

 

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Al ristoro chiamato Miller’s Defeat (55 km) comincia la parte che tutti temono: la sezione detta dei canyon. Questa, per chi come me è al centro del gruppo, è la parte più difficile. È relativamente tecnica, ma con salite e discese ripide su sentieri secchi e polverosi, in un caldo soffocante che non ti dà tregua. E noi “normali” ci passiamo nel mezzo della giornata, col sole a picco. Se c’è qualcuno che ti corre davanti, mangi circa un etto di polvere al kilometro. E se non lo mangi, ti entra nei polmoni, regalandoti una silicosi da minatore.

Nessuno dei corridori che incrocio ha un passo agile o un’espressione tranquilla. In fondo al canyon che precede il ristoro di Devil’s Thumb, che troveremo alla fine della seguente salita, c’è un ruscello, nel quale tutti ci immergiamo, ass first, per abbassare la temperatura corporea e quindi recuperare una parvenza di normalità. Ci scambiamo un saluto, seguito da uno sguardo triste, a metà tra compassione e rassegnazione. Ma stranamente a me scappa anche da ridere. Sarà che questi freschi bidet au naturel sono, in quel momento, una delle cose più belle che ci siano. Il mio perineo è in estasi.

 

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Al ristoro di Devil’s Thumb, dopo circa 70 km, un personaggio dello staff medico mi fa perentoriamente notare che ho la faccia abbastanza incrostata di sale, e che devo (usa l’espressione you have to, e c’è poco da replicare) bere del brodo caldo per integrare i sali persi.

Brodo bollente con pollo e con la temperatura esterna di 40C? Easy peasy, sir. Mi metto davanti a lui, ingollo l’arroventato miscuglio a base di lava e faccio finta di godermelo alla grande, come se fossi Simone Moro appena sceso dal Makalu al campo base, in pieno inverno, con un principio d’ipotermia. Penso di meritarmi l’Oscar, dopo questa interpretazione.

Fortunatamente, al ristoro ci sono anche dei buonissimi ghiaccioli in vari gusti (mirtillo, lime, limone e menta) e dai colori troppo vivi per essere naturali. Ne mangio tantissimi, sotto lo sguardo attonito della signora dietro il banco. Sono abbastanza certo di essere stato argomento di conversazione a fine servizio.

Prima di uscire dal Canyon, un’ultima salita: quella che porta dal ponticello su El Dorado Creek (ritorna il tema dei gelati) a Michigan Bluff (90 km). Qui entro un po’ in crisi, la salita pare non finire mai e qualcuno mi salta via come se fossi fermo. Ma fermo non mi sembrava di essere… insomma, c’erano tutti gli ingredienti per provare a resettare tutto al seguente ristoro. Per fortuna lì ho trovato mia moglie che mi aspettava con un panino col tacchino. Però ne mando giù solo un paio di morsi… purtroppo il pane che si trova normalmente nei supermercati rurali della California non è di gran qualità: non ha praticamente crosta (la mia parte preferita) e la mollica ha la consistenza (e forse anche il gusto, ma non ne sono sicuro) della gommapiuma dei materassi Ondaflex dei primi anni 70. Insomma, non il massimo

Però, guardando il lato positivo, stava arrivando la sera, c’era (un pochino) meno caldo, e presto Roberto mi avrebbe seguito per farmi da pacer, da Foresthill (100 km) fino alla fine.

Arrivo a Foresthill intorno alle 21, ma oltre a ristorarmi devo farmi sistemare un callo al piede sinistro che mi fa male da tante ore e mi sta facendo diventare matto, facendomi correre abbastanza storto (beh, più del solito).

In teoria, la parte da Foresthill al traguardo è la più facile. Questo è vero se si è freschi. Ma per uno come me, i 100 km sulle spalle sono come una tenuta da palombaro, e il mio incedere lo rende abbastanza chiaro. I tre ristori successivi, festosi e pieni di meravigliosi volontari, risollevano lo spirito, ma non il corpo. La mia amica JoAnne, medico presente al ristoro di Peachstone (113 km), mi dà della crema da spalmare sui muscoli. Sarà l’effetto placebo (probabilmente era una crema de l’Oreal), ma qualche dolore in meno mi pare di averlo. Roberto mi segue con pazienza infinita, evitando di deridermi ogni volta che inciampo su una pietra (ho perso il conto delle volte che mi è successo).

Prima di attraversare il fiume a Rucky Chucky, incontro la leggenda Gordy Ainsleigh, col quale scambio due chiacchiere. Per chi non lo sapesse, lui è il tizio che per primo ha coperto a piedi in tappa unica il percorso della WSER, nel 1974. E lo ha fatto in meno di 24 ore. La sua impresa è considerata la prima edizione della corsa. Nice meeting you, sir, e riparto, immergendomi fino alla vita nelle gelide acque del fiume per guadarlo. Se nel precedente pomeriggio l’acqua fredda di un fiume era benvenuta, ora con le temperature più basse della notte si soffre per il freddo. Ma a questo punto si va avanti quasi per inerzia, e fermarsi sarebbe una violenza. Soprattutto per il mio perineo quasi ipotermico.

Vado piano, ma vado – ed è la cosa più importante, anche se ho un’ora e mezza di grazia in cui non smetto mai di correre e supero un buon numero di concorrenti, lasciando di sasso il buon Roberto, che ormai si era rassegnato a seguire il mio passo che alternava corsa e camminata.

 

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Al ristoro di Quarry Road (145 km) gli altoparlanti suonano a palla una canzone dei Måneskin, e ci fermiamo per un attimo di riposo. Al ristoro riconosciamo il mito Scott Jurek, che ha vinto la WSER un bel numero di volte (7?); lui si dimostra un gran signore, e non può mancare il selfie di rito.

Ormai è quasi fatta, sorge il sole e Pointed Rocks va via veloce, con il miraggio di Auburn a pochi passi, e il tempo limite delle trenta ore che non mi minaccia più.

Splende il sole sulla pista della Placer High School di Auburn. Nonostante siano circa le 8.30 del mattino fa già caldo, ma il calore che sento dentro è dato da un’emozione che non saprei descrivere, e che può essere vissuta solo quando si combatte contro se stessi (e il caldo sahariano) uscendone vincitori.

Roberto si defila lasciandomi terminare in solitudine, con gli ultimi 300 m della pista di atletica che sono come un giro d’onore. Non c’è molta gente: la folla c’è per gli arrivi dei più forti e per la Golden Hour, l’ultima ora utile per terminare la corsa. Ma non m’importa, al traguardo c’è chi mi vuole bene. Fiona, Roberto, Joanne, Marisa, Alice, Megan, Mark, Jukka, Carissa, Kynan, Laura e ne sto sicuramente dimenticando qualcuno. Arrivo solo, con gli occhi socchiusi a causa del sole basso, lo speaker mi presenta al pubblico e rallento un po’ per assaporare fino in fondo questi momenti che vorrei fossero infiniti.

Supero il traguardo, e quello che rimane è solo gratitudine. Per il percorso, per chi mi ha accompagnato, per i volontari migliori che abbia mai incontrato, per i sorrisi e il continuo incoraggiamento di tutti.

Sarò anche di mezza età, con qualche acciacco, e sicuramente poco veloce, ma in questo momento la fibbia da finisher mi fa sentire il più forte di tutti.

I dolori fisici da affaticamento e da cadute (qualcuna di troppo, ops) passeranno; quello che non passerà sarà la memoria di un placido, torrido fine settimana del giugno 2022 passato a calpestare sentieri nel nord della California, assieme a più di 300 altri corridori, mossi tutti dallo stesso fuoco che ci anima. Qualcuno potrà dire (io no) che siamo matti, ma forse matto è chi quel fuoco non ce l’ha.

Cheers.

 

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Le parole del mio amico pacer Roberto Beretta: “Essere pacer alla WS è un regalo che ti concede un amico. Non dai nulla, non offri nulla, se non silenzio, parole e compagnia. Vivi la gara da non protagonista, sei un contorno della festa eppure sai che quello è il tuo posto e il tuo ruolo. Felicissimo di aver condiviso un viaggio con un fratello. Anche questo è trail.”

 

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