Trans D'Havet 2022, embedded

 

Testo e foto di Enrica Gouthier

 

“Non c’è uomo più completo di colui che ha viaggiato, che ha cambiato venti volte la forma del suo pensiero e della sua vita” Alphonse de Lamartine

 

 

I viaggi ti cambiano, sempre.

Se sei curioso, se hai voglia di conoscere, se hai voglia di affrontare ogni giorno come una nuova scoperta allora tornerai a casa diverso: con esperienze di vita in piú, che in un modo o nell’altro, ti fanno crescere e modellano il tuo essere, qualunque sia la tua etá anagrafica.

Credo molto in questo mantra: negli ultimi tre mesi ho viaggiato parecchio, sia per lavoro che per gare e tutte le volte rientravo a casa piú ricca, con pensieri diversi e, cosa piú importante, piú felice.

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Dico sempre, quando sei felice, notalo e tutto intorno a te andrá meglio, i problemi non saranno piú insormontabili e saprai trovare una soluzione per risolvere anche quello che sembrava essere irrisolvibile. Non sarà piú semplice ma tu avrai la forza per vedere la prospettiva migliore e andare oltre.

Ecco, tutti questi pensieri sono stati elaborati nel viaggio di rientro da due giorni molto pieni e ricchi di bellezza.

Ho accettato tutto quello che arrivava con la gioia nel cuore e vivendo appieno la giornata. Non credo di aver mai smesso di sorridere.

Grazie alla collaborazione con Enrico Pollini, uomo poliedrico e dal grande cuore, ho potuto seguire la Trans d’Havet, gara di trail running nelle piccole dolomiti al confine tra le province di Vicenza e di Trento, svoltasi il 23 luglio 2022.

Giunta alla sua undicesima edizione, quest’anno hanno reintrodotto la distanza ultra (80 km e 5500 d+) con il passaggio nelle suggestive 52 gallerie e al rifugio Papa, che nel giorno della manifestazione, compiva 100 anni dalla sua prima apertura. Un giorno da ricordare.

Da qui voglio partire, perché la prima notte è stata in compagnia del soccorso alpino, sezione di Schio, al bivacco sopra il rifugio Papa.

Luca, Riccardo e Matteo avevano da coprire la postazione alla fine delle gallerie. E’ un compito che spetta loro ogni anno e hanno sempre lo stesso entusiasmo nell’aspettare e incitare ogni singolo concorrente che passa da li, magari ricordando di accendere la frontale anche alle prime luci dell’alba, perché nelle gallerie è sempre buio e c'è rischio di cadere.

Mi raccontano che questo è il primo anno in cui non accenna a piovere. Mi raccontano di anni in cui i fulmini cadevano a pochi metri da loro, in cui non serviva nulla ripararsi nelle gallerie, perché si riempivano di acqua e questa faceva da perfetto conduttore di elettricitá.

Mentre ci gustiamo un’ottima cena offerta da Renato, il gestore del rifugio da quarant’anni, chiacchieriamo della loro vita, di come riescono ad incastrare il lavoro con il volontariato ma soprattutto di come considerano questo servizio al pari di una famiglia.

Come tutte le famiglie, ci sono screzi, litigi e problemi, ma alla fine, quando si presenta il problema sono uniti e pronti a sostenersi l’un con l’altro. Non si sono scelti, si sono trovati e sanno accettare i pregi e difetti dei rispettivi compagni così da trarne vantaggio per creare una squadra forte ed unita. Sicuro, non è un volontariato facile, ci vuole molta dedizione e tempo, ma ogni sforzo viene ripagato con giornate mozzafiato, fatica condivisa e ringraziamenti che valgono oro.

Ho condiviso con loro una deliziosa cena, risate, ma tante risate e la programmazione della giornata seguente. Ho condiviso con loro la sveglia alle 2.30, la preparazione di tutto il necessario per il primo soccorso e la sfacchinata nel portare il materiale al punto stabilito. Ho condiviso con loro la prima tazza di tè - chissá perché lo immaginavo caldo, invece al primo sorso mi si è gelato lo stomaco.. ma non importava, erano cosí gentili che non mi sarei mai osata dire nulla se non grazie -

Per alcune ore mi sono sentita parte del loro gruppo, ed è stato emozionante.

Mi sposto al punto in cui devo fare i primi report per la gara. Si attende la testa del gruppo verso le 4.30 e con essa arrivano anche le prime luci dell’alba.

Rimango li fino alle 6 circa, poi saluto i miei primi compagni di viaggio per correre a prendere un caffé ed una fetta di torta al rifugio Papa e andare al punto d’incontro prestabilito con Denis, il supervisore del tracciato.

Nel frattempo mi ritrovo lungo la prima discesa dell’80 km, il sole che sorgeva e la pancia del gruppo che piano piano scendeva verso il Pian delle Fugasse. Negli occhi dei concorrenti si leggeva la prima stanchezza della notte e la gioia di essere lì in quel momento. Che onore essere stata presente ed aver assaporato ogni istante.

Arrivo con un ritardo di cinque minuti da Denis, ma era impossibile non fermarsi ad ogni curva per fare alcuni scatti e due chiacchiere con i concorrenti.

Mi accoglie con un immenso sorriso e non faccio in tempo a salutarlo che mi offre la colazione. Con un imbarazzante rifiuto - la crostata aveva già fatto il suo lavoro - partiamo alla volta di Pian delle Fugasse, primo ristoro in cui i concorrenti potevano avere un pasto caldo, sedersi e rigenerarsi per alcuni minuti. Li accetto il primo caffè di una lunga serie, la giornata sarà molto lunga.

La gestione del luogo è affidata agli alpini, che non mancano un’edizione e sono il cuore della manifestazione. Soddisfano le richieste di ogni corridore sempre con il sorriso, a qualunque ora e qualunque sia l’umore del concorrente. Sono pronti a scattare appena sentono il loro nome e non si tirano mai indietro. Grazie a loro, i ristori sono sempre impeccabili.

Sorrido, la loro forza viene trasmessa ad ognuno dei partecipanti e non si può fare a meno di riprendere a correre con ancora piú energie.

Si riparte, direzione Campogrosso, dove la gara da 42 km si interseca con quella da 80 km. Da qui in avanti i tracciati saranno gli stessi e il gruppo sarà ancora piú nutrito, perfetto per assaporare ancora più dall’interno le sensazioni dei partecipanti.

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Aspetto i passaggi dei primi concorrenti della Marathon per poi muovermi, ma stavolta a piedi, assieme a tutti i corridori, per godermi ancora di piú questo evento e i suoi meravigliosi scorci.

La salita dal Rifugio Campogrosso porta verso la cima Carega ed il Rifugio Fraccaroli. Una strada inizialmente nel bosco, per poi snodarsi su un ripida pietraia in cui si può vedere la serpentina di persone salire con passo lento ma costante. Mi perdo nel fotografare volti stanchi, accaldati ma fieri di ciò che stavano facendo. Mi immergo in chiacchiere con ogni partecipante che non vedono l’ora di scambiare due parole con qualcuno.

Alcuni mi raccontano di come mai sono lì, delle gare future e delle speranze per la fine della stagione. Altri si lamentano per il caldo e alcuni per i crampi. Taluni si devono fermare per la durezza del percorso, devono rifiatare e cosí ci fanno sfilare per proseguire.

Lungo il cammino abbiamo incontrato molti escursionisti che cedevano il passo ad ogni corridore, anche se questo comportasse la sosta ogni due metri.

Tra una foto ed un video, arrivo in cima alla forcella, breve discesa e poi una dolce salita verso il Fraccaroli, rifugio simbolo della manifestazione.

Il ristoro è stato creato in memoria di Cristina Castagna, giovanissima alpinista che perse la vita nel 2009 mentre scendeva dal Broad Peak, la dodicesima montagna più alta della terra. E’ stata la più giovane alpinista italiana ad aver scalato un ottomila ed in zona è ricordata come ''el grio'' ossia il grillo, per la sua vivacità estrema.

Un aneddoto raccontato post gara ma strettamente legato ad essa, è il giro della Trans d’Havet al contrario con gli sci d’alpinismo. Nel gruppo era presente la giovane alpinista, Paolo Dani - mancato recentemente nella tragedia della Marmolada - Mauro Pretto e Chiara Ambros, amici legati da una passione sfrenata per la montagna. Da Marana a Posina per godere di ogni metro di neve nelle montagne di casa.

Oggi viene ricordata con un libro, Acchiappasogni, e il ristoro al Fraccaroli dove si trova la cima del suo cuore, il Carega.

Da qui al mio rendez-vous con il medico della gara, sono circa 30 minuti di discesa. Inizio a scendere godendomi ogni passo, con gli occhi ancora lucidi per i racconti. Aspetto qualche concorrente che cerco di incitare al mio meglio per portarlo alla base vita del rifugio Scarolbi. Scatto qualche foto perché si sa che davanti alle telecamere si tirano fuori forze che non si pensava di avere.

Arrivo in una conca verde e anche qui, come una costante che caratterizza tutta la manifestazione, i sorrisi non tardano ad arrivare. Conosco Florio e Gigi, i medici. Con loro faró l’ultima ora di cammino e il rientro a Valdagno, paese di arrivo delle gare. Dobbiamo aspettare le scope e gli ultimi concorrenti prima di partire e questo mi da modo di scambiare due parole con gli alpini del posto.

‘’Non ho piú le forze per fare queste cose - mi racconta Dario, veterano della gara - ma non so come mai ogni anno mi ritrovo alle 5 del mattino, ad allestire e preparare nel migliore dei modi l’accoglienza per i circa 400 corridori che passeranno’’

Fotografo un emiliano ed un toscano che si incitano a vicenda, ma sono in ritardo…uno dei due ha promesso alla moglie una cena e sa che non arriverá.

lo attende una tirata di orecchie, ma in quel momento l’unica cosa che contava era terminare la gara nel migliore dei modi.

Arriva la prima scopa, iniziamo a prepararci. Il sole è caldo, la temperatura si è alzata ma nulla può rovinare quelle ultime ore di luce e bellezza.

Florio e Gigi si conoscono da 35 anni e tra di loro c'è moltissima complicità. Mi dicono di andare con calma ma sapevo essere camminatori provetti e mi hanno tirato per bene il collo. Nonostante la stanchezza della giornata si ride e ci si racconta, i chilometri passano velocemente e arriviamo alla macchina. Ultimo giro e via all’arrivo di Valdagno.

Arrivo trafelata alle premiazioni: foto di rito, saluti e poi, finalmente riprendo fiato.

Vedo Enrico, ideatore di questa giornata incredibile, che voleva vivessi da dentro la manifestazione, per capire cosa fosse davvero la Trans d’Havet.

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E cosa posso dire? Mi sono sentita parte di una famiglia, mi sono sentita amata e ho passato ore di puro divertimento. L’allegria era ovunque, era una festa incredibile. Era vita, quella vera, quella pura, quella sincera, quella che ti lascia il segno e ti cambia. Erano urla di gioia e pianti al traguardo. Erano rughe, segni di esperienza, occhiaie e dormite di poche ore. Erano profumi e prati verdi. La Trans d’Havet era tutto questo e sono riuscita a comprenderlo bene solo grazie a questo meraviglioso viaggio.

A due giorni dall’evento, seduta alla mia scrivania in legno, con una leggera brezza che fa sopportare il caldo a stento, ricordo i volti, gli sguardi di ogni singola persona che ho incontrato durante il mio viaggio. Sorrido, perché se ci penso bene, non ho mai visto in nessuna manifestazione un’accoglienza del genere da parte degli organizzatori. E soprattutto nessuno ha mai pensato ad un viaggio ‘’inside the race’’.

Forse si dovrebbe fare piú spesso, forse bisognerebbe pensare oltre ai classici schemi e immaginare qualcosa che vada al di là del classico giornalismo.

Bisogna avere quel pizzico di follia per creare quanto ho vissuto, perché, ad onor della cronaca, se qualcosa fosse andato storto, avrei dovuto scriverlo e raccontarlo. Un bel rischio per gli organizzatori, soprattutto a due anni dalla versione integrale della gara.

‘’Siamo una macchina ben rodata. - mi racconta Enrico - Ero certo che se ci fossero state emergenze ogni volontario sarebbe stato in grado di gestirle e risolvere. Inserirti all’interno della gara è stato quello stimolo in più per fare ancora meglio, per esprimerci al massimo delle nostre potenzialità. Sono fiero di ogni singola persona e di come, dopo due anni difficili, ne siamo usciti ancora piú forti e caparbie.''

La Trans d’Havet dà appuntamento al prossimo anno chiudendo i sipari su un week end ricco di soddisfazioni e tanto caldo, con la promessa che il prossimo anno sarà in grado stupirci di nuovo.