I bambini crescono

SPIRITO TRAIL 115, agosto 2018, pagina 82

Francesco paco Gentilucci, "I bimbi crescono", Rubrica Acido Lattico

 

 

Sul palco c’è un bambino con la mano sul cuore. Non ha più di 10 anni, la sua categoria va dagli 8 ai 10. Dietro di lui c’è una bandiera dello Stato da cui proviene e mentre se ne sta con lo sguardo perso nel vuoto risuonano le note dell’Inno nazionale. Un premio ai suoi piedi fornito da uno sponsor e una medaglia al collo. Un piccolo trofeo sull’altra mano e la maglia della nazionale decisamente troppo grande per lui.

Il bambino ha vinto il campionato europeo di uno di quelli considerati “sport minori”, ma che comunque hanno rappresentazione nelle Olimpiadi.

Sembra felice?

Lo sport come metafora della vita in cui ti impegni e hai successo è la stessa che negli anni ci hanno sempre ripetuto. Ricordo ancora l’imbarazzo ai giochi scolastici, in cui dovevamo esibirci in un percorso a ostacoli con capriole e salti nei cerchi. Dovevi provare a vincere. Perché chi arrivava dietro era quello sfigato, il debole. Inculchiamo il valore dell’avere successo, di essere il più forte di battere tutti. Dopo i giochi sportivi bisognava cantare l’Inno. Ricordo che fui l’ultimo della classe a impararlo. Feci scena muta e venni rimproverato. Non mi piaceva, non mi entrava in testa, non volevo. Quando mio nonno mi aveva spiegato che “siam pronti alla morte / l’Italia chiamò” si riferiva alla chiamata alle armi ero scoppiato a piangere. Io non volevo andare in guerra, l’altro mio nonno ci era morto e a sentire dei racconti non c’era niente di affascinante.

Visioni distorte dello sport. Le gare come momento per battere gli altri, vincere il premio e dimostrare di essere i più forti sono qualcosa che cozza con l’idea di sport di un bambino di 8 anni.

Attenzione, il limite è molto leggero, ed è facile fraintendere. Le gare sono un momento di divertimento e di confronto, e con questo non sto assolutamente dicendo che andrebbero abolite, anzi. Solo che bisognerebbe preservare la naturalezza dei bambini, almeno fin da piccoli. E preservare la naturalezza delle gare dei bambini.

Quando vedi i bambini giocare al parco, scalare, correre, urlare e inseguirsi il mondo delle gare nazionali è lontanissimo e risuona come l’ennesima stupida forzatura a cui li sottoponiamo. Lo sport non deve essere un lavoro, anche se negli altri Stati i bambini “vengono scelti” già in fasce per diventare eccellenze nello sport, pensiamo alle ginnaste cinesi, ad esempio.

Cosa stiamo insegnando ai bambini?

Dimostrare di essere sempre i migliori, non ad apprezzare un’attività semplice e spontanea, come la corsa, perché divertente in sé e come mezzo per conoscere il mondo: questo è il limite. A 8 o 10 anni lasciate i bambini fuori dagli inni nazionali, dallo sport professionistico e da tutte quelle cose che fanno divertire le persone che guardano lo sport seduti dal divano.

A loro, presumibilmente, non interessa diventare campioni europei di qualcosa, interessa di più alle federazioni.

Le possibilità reali che un bambino di 8 anni diventi un professionista da grande sono minime. Sarebbe bello aumentare la percentuale di bambini che si appassionano a uno sport e si divertono a farlo, piuttosto che una nazione di bambini obesi e qualche fortissimo professionista, di 8 anni.

 

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