Barkley: la corsa che mangia i suoi figli

SPIRITO TRAIL 112, maggio 2018, pagina 20

Davide Grazielli, "La corsa che mangia i suoi figli", SPECIALE BARKLEY 

 

Barkley Marathon, un nome che incute timore. E come potrebbe essere altrimenti, per una gara che viene definita “The race that eats its young”.

 

Ma come nasce, e soprattutto perché creare una gara così spietata come la 100 miglia (in realtà il chilometraggio è imprecisato, ma tende più a stare sulle 120 miglia) che ogni anno porta 40 persone al cancello giallo di Frozen Head State Park?

 

Il suo creatore Gary Cantrell, meglio conosciuto come Lazarus Lake, risponde con un semplice “perché non c'era ancora”: a volte le risposte più ovvie sono quelle giuste, ma sarebbe troppo semplice ridurre la Barkley a una “gara che prima non c'era”.

Partiamo allora dall'inizio: la gara si ispira alla tentata fuga nel 1977 di James Earl Ray, l'assassino di Martin Luther King, dal vicino penitenziario di Brushy Mountain. In 55 ore di latitanza, Ray aveva coperto sole 8 miglia nell'impenetrabile bosco prima di arrendersi e consegnarsi alle guardie: dovrebbe già dire molto della natura del terreno su cui si svolge la gara.

Ma non è solo il terreno a rendere la gara difficile. I verticali di Big Hell, Rat Jaw, Bird Mountain, strappi brutali infestati di rovi, fango e terreno pessimo, o la Leonard's Butt Slide, scivolo a 45 gradi che si inoltra nella vegetazione, o ancora il Son of a Bitch Ditch (chi ha dimestichezza con l'inglese apprezzerà l'ironia dei toponimi) un condotto di tre metri spesso pieno di acqua da attraversare, fanno solo da sfondo alle bizzarre regole inventate da Gary. A partire dal fatto che per dimostrare di aver passato alcuni punti del percorso bisogna trovare dei libri che vengono nascosti nei posti più impensabili: ogni concorrente deve strappare la pagina corrispondente al proprio numero (che viene cambiato ogni giro) e riportare tutto al controllo a fine giro. Si, perché la Barkley è fatta da cinque giri dello stesso percorso, fatti in direzione alternata, e quando qualcuno arriva all'ultimo giro (ma vedremo che non capita spesso) sceglie la direzione da prendere. Chi segue è obbligato a prendere quella opposta, tanto per rendere le cose meno ovvie ed evitare ai partecipanti eventualmente rimasti in gioco di potersi aiutare. Il percorso, ovviamente, non è segnato, ed è richiesta abilità di navigazione o di attaccarsi nei primi giri a qualche veterano. E se pensate che sia di libera interpretazione: un anno uno dei due finisher è stato squalificato per essere passato sulla riva sinistra invece che sulla riva destra di un ruscello!

 

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Ma nessuno si lamenta, perché chi si presenta al cancello giallo sa a cosa va incontro, e quei quaranta posti sono tra i più ambiti al mondo. Anche perché la gara non ha una procedura di iscrizione chiara. O anche meno chiara. Nessuno sa in realtà come si fa se non cercando di carpire il segreto da concorrenti passati che però sarebbero tenuti a non svelare niente. Quello che si sa è che bisogna scrivere un tema sul “Perché dovrebbero consentirmi di correre la Barkley”, pagare un dollaro e sessanta centesimi e completare un'altra serie di richieste assurde che cambiano di anno in anno. Come sapere se vi hanno accettato? Riceverete da Laz stesso una lettera di condoglianze. E se è la vostra prima volta alla Barkley, ricordatevi di portare una targa automobilistica del vostro paese. Se invece avete già finito la Barkley, non dimenticate un pacchetto di Camel per Laz. E avanti così.

D'altronde la partenza è data a un'ora non precisata, segnalata un'ora prima dal suono di una conchiglia: da mezzanotte a mezzogiorno ogni momento è buono, e all'accensione di una sigaretta, i concorrenti radunati alla sbarra sono liberi di partire.

Come ogni evento leggendario, la Barkley vive della sua esclusività: se è difficile farne parte, finirla è quasi impossibile. Sole 15 persone hanno finito la gara dal 1986, nonostante si siano alternati negli anni campioni delle 100 miglia classiche, esperti orientisti, camminatori reduci da record e performance nei luoghi più impervi. Eppure per la stragrande maggioranza di loro, è suonato il “silenzio”, il suono che accompagna l'eliminazione di ogni concorrente. Il tempo limite è di dodici ore a giro, con 40 ore per avere diritto ad aver completato la “fun run” di 60 miglia (solita ironia di Gary).

Aldilà del terreno, delle condizioni meteo spesso oltre ogni limite, della navigazione, della ricerca dei libri, cos'é che rende davvero un compito improbo finire i cinque giri? Molti concordano che sia il fatto che non c'è virtualmente spazio per alcun momento di relax: mantenere un livello così alto di controllo sul proprio corpo, sul percorso, su come non farsi male svuota completamente di ogni energia. E la situazione diventa critica quando insorge anche il sonno che rende ogni ragionamento critico e leva qualsiasi lucidità in un evento dove ogni minuto c'è da prendere una decisione che significa dentro o fuori dalla gara. Basta vedere le facce stranite dei finisher o di chi arriva a fine anche solo di un singolo giro.

Tutto questo è stato costruito da Gary e pochi fidati collaboratori restando volutamente fuori dalle luci della ribalta, che sono arrivate solo negli ultimi anni con il documentario trasmesso da Netflix o il video di Gary Robbins, uno dei “dannati” della Barkley: evitando qualsiasi affermazione roboante e le iperboli a cui siamo oramai abituati nella gara a diventare più lunghi, più alti, più duri. È la sua storia a parlare chiaro, ma senza strillare. Come l'atmosfera di Frozen Park: calma, ferma, ma ostile. È questo a rendere Barkley unica. E questo è quello che voleva Laz: per dirlo con le sue parole “Se stai per affrontare una sfida, deve essere una vera sfida. Non si può raggiungere niente senza la possibilità di un vero fallimento”.

Siete riusciti a capire come iscrivervi alla Barkley? Laz vi ha addirittura preso e dato il numero 1?

Non prendetelo come un complimento... è il numero riservato al partecipante che secondo lui ha meno possibilità di completare anche solo un giro. “Il sacrificio umano”, come viene da lui definito. D'altronde non è “the race that eats its young”?

 

Le altre pagine dello SPECIALE:

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